QUATTRO

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Billi come al solito ha recuperato perfettamente. Alle sei in punto, quindi, devo passare a prendere lui e Germana, per andare da Alberto. Come promesso.
Impiego un tempo inusuale per scegliere gli abiti adatti e alla fine mi fermo a verificare il risultato, riflesso nello specchio dell'ingresso. Alle volte anche per me i conti non tornano. Altra pelle, altri capelli, altri odori. Un sortilegio del Mago ci ha forse modificati per sempre. Instillando nella nostra età troppe domande, alle quali nessuno è bravo a rispondere. Neanche mio padre che prima del sortilegio sapeva tutto e tutto riparava.
Arrivo dai Bregovich, in perfetto orario. Billi si precipita addosso urlando che tutta la banca, questa volta, sarebbe stata sua. Poi, come nei film che vedo all'arena di Buglia, inizio a inquadrare, con lentezza, l'apparizione di Germana. Gonna corta e scarpe di tela alla schiava. Una blusa di garza di cotone, un po' trasparente. Mi saluta e prende la mano di Billi, avviandosi. I capelli nerissimi scendono sino ai fianchi. Lunghissimi. Forse questa è la causa scatenante della nostra mutazione. Come la luce antica delle stelle, anche la consapevolezza dei nostri capelli era in viaggio, verso di noi, da molto prima che nascessimo. E con o senza sortilegio ci aveva raggiunti. In quella specie di acquitrino che finiva in mare. Si era impadronita delle nostre ore migliori, cambiandoci inesorabilmente. In cosa? In chi? E verso dove? E mio padre avrebbe saputo spiegarlo? Sebbene io non abbia il coraggio di fargliela questa domanda, lo so che anche lui non conosce la risposta. Che quello che stiamo aspettando è ignoto ai tanti che a Favara, nelle notti d'estate, si tirano il lenzuolo sopra la testa per non sentirla nemmeno quella domanda. E per il momento l'unica cosa che conosco è la direzione che mi porterà a casa di Alberto. Germana davanti, tiene per mano Billi. Io, dietro, analizzo versioni e possibili domande. Come sempre.
Con Billi sulle ginocchia seggo su una sedia impagliata. E vinco di tutto. Alberghi, contratti, Vicolo Corto, Stretto, ferrovie, acquedotti. Alla fine tutti al tavolo devono dichiarare la resa. Compreso Alberto che ha la banca e l'ultimo contratto. Billi inizia a cantare «abbiamo vinto, abbiamo vinto», ballando per tutta la stanza. Germana mi salta al collo, abbracciandomi. In maniera automatica la cingo con le braccia e in un attimo ci scambiamo valanghe d'informazioni tattili, che iniettano altre perplessità e quesiti. La consistenza ad esempio. Diversa. Perché i corpi da piccoli sono fatti di roba solida. Ricordo il dolore causato dalla craniata al gomito, nel tentativo di fregarle il Super Santos. Quella è la sensazione che ricordo. La modalità di interazione che mi sarei aspettato. Materia solida, concreta. Gli adulti invece sono diversi. Sono fatti di qualcosa più simile al vuoto. Ti avvolgono di vuoto, morbido e rassicurante. T'isolano dalla materia solida, come quella dell'asfalto ruvido che ti ha devastato il ginocchio, scivolando con la bicicletta. O come la pietra tagliente che ti ha squarciato la mano mentre correvi in cortile. Il vuoto degli adulti lenisce il dolore, anestetizza la ferita. Ti placa e ti appaga. Ecco perché sono perplesso. Perché in questo istante ho avvertito quel vuoto. Quel distacco provvisorio dalla concretezza del contatto. Il lenire non consapevole del dolore conseguente la caduta. Seppur non ricordi l'evento contundente, la natura della ferita o la posizione dell'ematoma. Mi sento appagato, anche se al tempo stesso contrariato, dall'impellente necessità di ritrarre indietro le braccia. Il sortilegio o la conseguenza del possesso dei capelli, deve avere mutato la mia natura e quella di chi in questo momento, esitante gira lo sguardo, prende Billi per mano, torna a casa. Io, fermo, ne seguo la direzione. Ho ancora Parco della Vittoria in una mano. E un albergo, nell'altra.

La figurina di ChimentiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora