TRE

38 0 0
                                    

E poi ci fu l'incidente.
Il figlio del Mago viveva a Buglia, con la vecchia nonna e aveva una moto da cross. Rossa. Doveva essere uno scanazzato pure lui, perché aveva una faccia strana e non parlava con nessuno. Proprio come il padre, anche se Alfredo sosteneva che era la copia esatta della madre.

Il benzinaio conosceva il Mago da una vita. Da giovani ne avevano combinate e sosteneva che allora, il Mago, era un tipo solare e loquace. La moglie la conobbe un sabato. Lei era dietro il bancone. La muta la chiamavano, perché nessuno ricordava di avere mai sentito la sua voce. I primi tempi lei imparò a sorridere e con lui parlava. Di cosa non lo sapeva nessuno, visto che il resto del mondo continuò a non avere comunicazione alcuna con lei. Poi nacque il bambino e la notte la gente la sentiva parlare. Non sorrideva più. Neanche al Mago. Ma parlava con le ombre. Diceva che arrivava gente, vestita di ombra, nella sua stanza da letto. Volevano portarsi via il bambino. Volevano lasciarla di nuovo senza parole.

Il Mago iniziò a diventare cupo e intrattabile. Di giorno badava al negozio. Ma soprattutto badava alla moglie, che con occhi oramai spenti, non vedeva neanche più entrare e uscire i clienti. La notte vegliava la donna che impaurita si aggirava per la casa, urlando all'abisso che se la stava divorando. Vegliava e contava le ore che passavano, le gocce che la ipnotizzavano per qualche ora e i minuti di sonno del bambino. Non poteva continuare per molto. Così una notte chiuse gli occhi. Aveva le palpebre stanche. Le ossa stanche. Contò le gocce con la solita cura e chiuse gli occhi. Quando li riaprì la luce filtrava dalle persiane, illuminando la solitudine delle lenzuola vuote, accanto a lui. Prese il fagotto con il bimbo dalla culla e andò in giro per due giorni interi, cercandola ovunque. Al terzo giorno i carabinieri di Buglia lo convinsero che era ora di riposare un po': si sarebbero dati da fare loro e lo avrebbero avvertito, quando... quando... insomma avrebbero fatto loro.

Il Mago consegnò il bimbo alla suocera e si chiuse nella sua casa. Per due giorni di fila sistemò, inutilmente, le boccette di veleni anestetizzanti. Osservò le ombre proiettate dagli abat-jour nella stanza. Poi svuotò tutto nel lavandino e fracassò le lampade. Dormì per due giorni di fila. Al terzo si alzò. Raschiò via la barba ispida che oscurava il suo viso. E tirò su la saracinesca dell'emporio. Due volte la settimana passava dai carabinieri, ricevendo sempre la stessa risposta. Portò un tavolo e un letto nel retrobottega e lì dietro fissò la sua dimora. La gente iniziò ad averne paura, perché diceva che la notte rientrava a casa, a parlare come le ombre, e queste gli rispondevano. Ma non era vero niente, lui non parlava più neanche con loro, perché anche le ombre trovavano insostenibile tutto quel dolore. Entrava nella casa solo per dare l'acqua alle piante della moglie e per lavare le sue povere cose.

Il figlio lo vedeva una volta la settimana. Andavano un po' in giro per Buglia. Zitti. Mano nella mano, in silenzio. Almeno fino a quando non fu troppo grande, per girare in paese, mano nella mano, con quell'uomo buio e silente. Poi solo il silenzio. La solitudine e il rumore assordante della marmitta della moto da cross. Rossa. Quella notte d'Agosto vide la cappelletta in lontananza. Illuminata dai bagliori dei fuochi d'artificio, sembrava ancora più rossa. Diede gas a manetta e aiutandosi con la gamba destra, iniziò a girarci intorno, sempre più veloce. Veloce, veloce, con le luci che facevano la scia sulla retina allucinata da chissà quali e quante polveri chimiche. Veloce, veloce come la testa che calcolava incessantemente la posizione del piede a terra, la pressione sul freno, la rotazione dell'acceleratore, la quantità di moto e di vita da conservare. E questa era sempre meno, sempre meno. Fino a diventare così poca da inquadrare il viso della madre che lo guardava rilasciare stanco il freno. Mentre la rotazione sulla manopola dell'acceleratore era al suo fondo scala, dove insensata stava ferma l'ombra della donna, in piedi su una pietra quadrata della costruzione, devastata dall'urto. L'ultima esplosione pirotecnica sul mare coprì il frastuono della marmitta e dell'impatto e dell'urlo di dolore del pistone squassato, che si spegneva dentro il cilindro. Dentro il cuore, della moto da cross. Rossa.

L'indomani, Don Maiano e la processione dell'Assunta, trovò pezzi della moto ovunque, uno dei piastrini crollato e la cupoletta pericolosamente inclinata a coprire il mozzicone di muro. Il Mago non disse una parola. Era il suo modo di piangere in fondo. A noi urlarono di tornare indietro, mentre qualcuno andò a chiamare l'ambulanza. Da lontano vedevamo solo il Mago e Alfredo chinati su un fagotto di stracci, adagiato vicino a quella che, una volta, era una delle colonnine di mattoni rossi. Le ombre si riaffacciarono per giorni sul borgo, ma noi bambini non sapemmo più nulla. L'unica notizia la portò Germana, perché il figlio del Mago era da suo padre in ospedale. Diceva che viveva attaccato a un sacco di fili e di tubi. Intorno tante macchine, che continuavano a fare strani suoni regolari, e questo era buon segno, perché quando non facevano più quei suoni, regolari, significava che uno era morto.

Eppure qualcosa era cambiato, si avvertiva nell'aria che respiravi. Don Maiano per primo ebbe un drastico ripensamento. Sentenziò che il Ferragosto era roba pagana, e abolì di colpo la processione. Io, per ripicca, mi inventai che erano tutte storie, che il fantasma del figlio del Mago continuava a fare il giro, in moto, la notte. E Germana, per controripicca, a dire che era una cretinata perché suo padre le assicurava che era vivo, in un posto dove, un giorno, gli avrebbero insegnato nuovamente a camminare. Andavamo avanti per ore, ci graffiavamo la faccia e le mani e ci sputavamo sulla testa per dispetto. Io a casa le prendevo sempre, perché Germana era una bimba dolcissima e non un arrogante scanazzato manesco. Anche se i graffi e i lividi li avevo pure io. Così una volta le dissi che se voleva davvero che le credessi, dovevamo andare a vedere. Di notte. Un brivido corse lungo le schiene della mandria di teste rasate. Soprattutto quando Germana disse «OK a stanotte!»

Erano tempi in cui tutto era in ordine: i nostri capelli, i nostri costumi e tutto il loro contenuto di pelle e sangue. Quelle parole suonarono come sfida ineludibile. Alle undici in punto ci ritrovammo nella piazzetta. Dei vari altri bambinetti neanche l'ombra, ovviamente.

«Se non te la senti puoi sempre dirlo. Vado sola.»
«Neanche se il fantasma mi mangia vivo.»

Corremmo tra le sterpaglie per un quarto d'ora, fino ad arrivare sul bordo del fosso prima della curva.

«Appostiamoci qua e aspettiamo.»

Dopo un'interminabile sequenza di minuti, sentimmo dei passi. Germana alzò la testa.

«Che è?»
«Il fantasma.»

Le buttai un'occhiataccia, alzai la testa anch'io e vidi il Mago nella cappelletta sistemare un lumino.

«Se non ci credi perché sei spaventata? Adesso evoca il fantasma. Guarda.»

Lei mi tirò uno schiaffo e il rumore lo fece girare. Appena in tempo per sprofondare di nuovo nel fosso. Passò un'ora o forse due. Io ogni tanto tiravo su la testa. Ma il Mago era sempre davanti al lumino. Zitto.

«Ho sonno.»
«Appoggiati a me, se ti addormenti ti sveglio appena quello se la fila.»
«E se viene il fantasma?»
«Ti lascio mangiare viva e scappo.»
«Cretino!»
«Cretina!»

Ci svegliammo che il sole era già alto. Per mano, zitti zitti, ci portammo verso la piazzetta. Quella volta le diedero a tutti e due, alla faccia della bambina dolcissima ed educata. E avevano ragione.

La figurina di ChimentiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora