Quando la smetterai di arrivare in ritardo?

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Da quell'incredibile incidente si era inspiegabilmente salvata. Quando Federica sentiva le altre persone ripetere: "Fede, tanto prima o poi cascano tutti", pensava che non fosse vero, anche perché i cinquemila chilometri già percorsi con la sua Vespa ET2 50 l'avevano sempre fatta sentire molto sicura. Quella sera di maggio, però, tra la pioggia, il forte vento, i lampioni mal funzionanti e i tombini scivolosi, Federica salì in sella alla sua moto e, allacciato con cura il casco color rosa cipria, si avviò verso il centro della città con la speranza che tutto filasse liscio e che le ruote reggessero bene sull'asfalto bagnato. Federica era perdutamente innamorata di quel tratto di strada: nelle serate estive riusciva a vedere tutte le case in lontananza, i palazzi storici, i parchi dove giocava da piccola e la sottile linea di terra che divideva il grande Vesuvio dal Golfo di Napoli. Le piaceva immaginare di tracciare un percorso con le dita, quasi a ripercorrere il viottolo che porta in cima all'imponente vulcano. Preferiva di gran lunga fare quella strada al calare del sole; "Mi sento sempre libera" - immaginava con occhi da innamorata – "Ed è come se toccassi il cielo con un dito". "Ok, forse sto andando un po' troppo forte" – pensò sgranando gli occhi - "Ma non posso arrivare tardi anche oggi. No, non posso proprio". Una volta oltrepassato il "curvone maledetto" - come lo chiamavano tutti - apparve una Jeep bianca e, dalla visiera del casco, Federica si accorse dell'accensione dei fanali posteriori che indicavano la retromarcia. L'automobile stava per entrare nella carreggiata dal parcheggio laterale. Con lo sguardo fisso e le gambe tese, la diciottenne si accorse che le ruote dell'auto stavano per muoversi ma, con il respiro pesante, continuò a ripetersi in testa "Figurati se fa inversione, figurati se fa inversione". La Jeep iniziò a compiere una lenta retromarcia e si immise quasi totalmente nella strada buia, ma Federica non aveva spazio sufficiente per concludere la frenata senza evitare lo scontro. L'impatto con la Vespa della ragazza fu inevitabile: con il casco sfondò il vetro posteriore della vettura e perse completamente i sensi cadendo a terra. L'adrenalina e la paura permisero a Federica di contemplare la scena come fosse a rallentatore e di rivivere quel momento come l'ultimo della sua giovane vita. In quel frangente così veloce, però, la vita le passò davanti e l'unica cosa che sperava era di riuscire a raccontare la follia e l'angoscia di quel momento ai suoi amici che l'aspettavano a poche centinaia di metri. Non si ricordò dei suoi genitori e dei risparmi che avevano consentito loro di comprarle quella Vespa che a lei piaceva tanto e che aveva ribattezzato con il soprannome di "Pantera nera". Non si ricordò di suo nonno paterno Gabriele che, durante una cena di famiglia in occasione dei suoi ottantacinque anni, le aveva confessato di preferire lei a tutti gli altri nipoti. Si scordò persino di Emanuele, il suo vicino di casa, che una domenica pomeriggio, durante una partita a Shangai, le aveva fatto una domanda tanto strana. "Cosa faresti se ti trovassi davanti alla persona che ami ma sai, in cuor tuo, di non essere ricambiato?". A quella domanda Federica non rispose mai, quel bastoncino colorato doveva essere spostato senza troppe distrazioni. Non si ricordò nemmeno dei tre bambini che aveva intravisto con la coda dell'occhio quel pomeriggio mentre stava correndo sul lungomare Caracciolo con le cuffie alle orecchie. Avevano tutti un gelato in mano, uno di quei coni confezionati al gusto di cioccolato fondente e panna che tanto desiderava e che sua mamma comprava quasi tutti i giorni prima di tornare a casa da lavoro. Non si ricordò nemmeno del suo professore di letteratura spagnola alla "Federico II": in programma quell'anno c'era il ventesimo secolo e l'opera che la colpì di più fu "Niebla" di Miguel de Unamuno. Quel libro l'aveva fatta riflettere tanto sul senso dell'esistenza e l'aveva fatta innamorare delle vicende di Augusto Pérez ed Eugenia, gli inquieti e tormentati protagonisti delle peripezie esistenziali dell'autore. Si ricordò una sola cosa Federica, una soltanto. Il suo adorato tramonto, lei pronta a parcheggiare la sua Vespa vicino all'entrata del caffè in via Partenope e loro, i suoi migliori amici d'infanzia, con uno sguardo di disapprovazione. Immaginava già cosa stessero per dire, le loro espressioni parlavano da sole. "Sei in ritardo come sempre, quando ti deciderai a non farci aspettare?". Nella testa di Federica risuonavano queste parole quasi come un mantra: lei odiava fare ritardo, ma sapeva che, da quando sua nonna si era ammalata pochi mesi prima, l'orario dell'aperitivo era diventato l'orario in cui lei doveva occuparsene. Non c'erano scuse e, soprattutto, non c'era nessun altro a cui l'anziana signora fosse tanto legata da permettergli di prendersene cura. "Tuo nonno non si ricorda mai che non devo prendere una pastiglia intera, ma mezza. Sbaglia sempre, poi mi sale la pressione e sto male. Lo sai? Mi sale il mal di testa e sento le vertigini. Sulle montagne russe mi sentivo meno affannata da giovane. Te lo giuro" le rivelava spesso con un filo di voce. Aida era sempre stata una nonna paziente, gentile e dallo spirito avventuroso. Ogni mattina prima di colazione, mentre aspettava che uscisse il caffè dalla moka, si dedicava per pochi minuti a sistemare i gerani rossi posizionati sul davanzale, tirando via le foglioline sciupate e fantasticando sui futuri fiori da comprare. Aveva anche una grande passione per la lavanda: in occasione dei quarant'anni di matrimonio, aveva sorpreso il marito con un weekend tra i borghi e i paesini della Provenza, e un pomeriggio, passando per le vie di Aix-en-Provence, era rimasta affascinata dalle distese di piante che sembravano fotografare un dipinto di Van Gogh. Federica, però, quella sera, non si ricordò di nient'altro. "Quando la smetterai di arrivare in ritardo?" e a ogni parola, nella sua testa, il tempo non aveva più senso.

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